Una recente sentenza della Cassazione, sezione Lavoro, n. 14782 del 2008, depositata il 4 giugno 2008, è intervenuta per ribadire l’obbligo di corresponsione dei contributi previdenziali Enpals dal parte del datore di lavoro (che nel caso concreto è il produttore) a favore dei lavoratori dello spettacolo per le prestazioni artistiche in sala di incisione. Stante la situazione attuale, dove la circolare n. 5 del 2008 dell’Enpals, su cui siamo intervenuti più volte in questa rubrica, ha recepito un decreto del ministero del lavoro del 2003 con cui si imponevano contributi convenzionali per le prestazioni in sala di incisione dei cantanti, generando numerosi problemi applicativi e critiche da più parti, l’esame di quest’ultima sentenza della Cassazione dovrebbe contribuire a chiarire lo scenario. Come vedremo nel presente scritto, il contributo della giurisprudenza non dirada la notevole confusione nel settore, anzi: viene “rilanciata” una precedente disposizione di legge che lasciava perplessi già alla sua emanazione.
La sentenza della Cassazione si riferisce al caso di un produttore discografico che, a seguito di un verbale di accertamento di ispettori dell’Enpals, redatto nel 1997, si è rifiutato di pagare i contributi previdenziali Enpals. Contributi dovuti, secondo l’ente, per le prestazioni negli studi di registrazione del produttore di diversi lavoratori dello spettacolo, come interpreti esecutori, tecnici, dee-jay, produttori esecutivi, ecc.
Da cui una opposizione del produttore alle ingiunzioni di pagamento da parte dell’Enpals, che ha come esito una sentenza del Tribunale di Milano, sez. Lavoro, del 14 giugno 2002. La sentenza accoglie le motivazioni del produttore, negando l’obbligo del contributo previdenziale, motivando che i lavoratori dello spettacolo, come i cantanti, coinvolti nella registrazione in studio di opere musicali non realizzano un’attività produttiva di spettacolo, diretta alla rappresentazione di un’opera di fronte a un pubblico di spettatori, bensì una diversa attività di registrazione, progettazione, realizzazione e commercializzazione di prodotti da immettere sul mercato. Non essendo sufficiente, afferma il Tribunale, la semplice appartenenza dei lavoratori alle categorie obbligatoriamente iscritte all’Enpals (analiticamente indicate all’art. 3 D.L.C.P.S. n. 707/47) per poterli assoggettare ai contributi previdenziali.
L’Enpals ricorre in secondo grado e ottiene la sentenza della Corte d’Appello di Milano del 11 giugno 2004, nella quale si ribadisce che l’attività di registrazione in studio non costituisce attività di spettacolo, dunque non sono dovuti i contributi previdenziali. Viene inoltre precisato che “i corrispettivi dovuti per contratto al lavoratore dello spettacolo per la cessione dei diritti d’immagine o connessi al diritto d’autore per la qualità di esecutore o interprete in registrazioni audiovisive, non [costituiscono] esse compensi differiti per l’attività di spettacolo, che è solo quella dal vivo, ma corrispettivo della cessione di diritti assoluti riconosciuti dagli articoli 10 e 2579 cod. civ. e disciplinati […] dalla legge 633/41”. Va detto, per inciso, che il riferimento all’art. 2579 del cod. civ. pare fuori luogo, facendo riferimento non ai compensi contrattuali bensì ai diritti a compenso previsti dalla legge 633/41 e raccolti dall’IMAIE.
Non soddisfatto del risultato, l’Enpals ricorre in terzo grado e ottiene la sentenza della Cassazione citata, finalmente a suo favore. La Cassazione ribalta quanto affermato nei due gradi precedenti, richiamando un’altra pronuncia della Cassazione, la n. 101144/2006, che viene considerata risolutiva di tutte le altalenanti prese di posizione giurisprudenziali precedenti. In quella pronuncia del 2006 la Cassazione non ha fatto altro che applicare l’art. 43 della legge finanziaria n. 289 del 2002, enunciando il principio per cui “sono soggetti a contribuzione in favore dell’Ente nazionale di previdenza e assistenza per i lavoratori dello spettacolo, anche i compensi corrisposti ai lavoratori appartenenti alle categorie di cui all’art. 3, comma 1, numeri da 1 a 14 del D.L.C.P.S. n. 708 del 1947 e successive modificazioni, per le prestazioni dirette a realizzare, senza la presenza del pubblico che ne è il destinatario finale, registrazioni (fonografiche, come nella specie, o in altra forma) di manifestazioni musicali o di altre manifestazioni a carattere e contenuto (artistico, ricreativo o culturale) di spettacolo. La disposizione sopravvenuta, introdotta con l’art. 43 della legge n. 289 del 2002 allo scopo dichiarato di ridurre il contenzioso e concernente, direttamente, il compenso imponibile, conferma tale interpretazione, presupponendo l’assoggettamento all’obbligo contributivo dei compensi corrisposti a titolo di cessione dello sfruttamento del diritto d’autore, d’immagine e di replica”. In conclusione, la contribuzione Enpals viene riconosciuta come dovuta all’Enpals dal produttore.
Affermazioni molto importanti che hanno avuto il risultato di vedere già imposto per legge, in virtù della legge finanziaria del 2003 citata, l’obbligo alla contribuzione previdenziale anche sulle registrazioni in studio di tutti i soggetti elencati nei primi 14 punti dell’elenco ex art. 3 D.L.C.P.S. n. 707/1947. Nell’elenco troviamo non solo i cantanti ma anche gli “orchestrali di musica leggera” (ovvero gli strumentisti di una band), i “consulenti assistenti musicali” nonché i compositori (comprendendovi anche gli arrangiatori).
Ma che cosa diceva esattamente questo art. 43 della legge finanziaria del 2003, recepito dalla circolare Enpals n. 1 del 2004? L’articolo, dall’efficacia retroattiva rispetto alle cause pendenti al 1° gennaio 2003 visto lo scopo di risolvere e ridurre il contenzioso pendente, oltre a prevedere la facoltà del Ministero del lavoro di estendere e integrare le categorie di lavoratori obbligatoriamente iscritti all’Enpals (come fatto nel 2005 con due decreti ministeriali, parzialmente abrogati della Cassazione), prescrive quanto segue: quando si perfezioni un rapporto contrattuale con autori o artisti interpreti esecutori, dove si pattuisca sia (1) l’adempimento di prestazioni lavorative che (2) il trasferimento (a titolo definitivo, perciò non parliamo di licenze) al committente dei diritti d’autore, connessi (chiamati “di replica” nel testo originario) e d’immagine, il tutto in cambio di un compenso totale onnicomprensivo, si considera che al massimo il 40% del compenso totale sia erogato quale prezzo della cessione, mentre il restante ammontare, minimo del 60% sul totale, si ritiene sia erogato a titolo di compenso per la prestazione lavorativa, ai fini previdenziali. Solo questo 60% (minimo) si considererà come imponibile per il calcolo della contribuzione dovuta all’Enpals, seguendo l’ordinario calcolo contributivo: il 33% di contribuzione sull’imponibile, di cui il 23,81% a carico del datore di lavoro e il 9,19% a carico del lavoratore (autore o artista interprete o esecutore), stando ai valori in vigore oggi. Il pagamento del tutto andrà effettuato a carico del datore di lavoro. L’Enpals aveva chiarito con la circolare n. 1 del 2004 che il criterio anzidetto opera se è stato formalizzato il rapporto di lavoro con un contratto: in sua mancanza tutti i compensi verranno globalmente ricondotti alla prestazione lavorativa.
Passiamo ad esaminare alcuni punti critici di questa innovazione.
1 – La disposizione della finanziaria 2003 in discussione aveva a suo tempo ricevuto, giustamente, numerose critiche, sia da operatori che da studiosi del settore, non da ultimo esponendosi a profili di incostituzionalità, come la violazione dell’art. 3 della Costituzione per ingiustificata disparità di trattamento verso gli altri contribuenti previdenziali.
L’idea del legislatore del 2003 è stata quella di superare le questioni interpretative di cosa sia attività di spettacolo o meno, di cosa sia assoggettabile a contribuzione previdenziale, sancendo che comunque i soggetti indicati che prestano attività lavorativa artistica, di qualunque tipo (dal vivo, in studio, ecc.) e in contemporanea la cessione dei diritti citati sono soggetti alla contribuzione Enpals, sono soggetti, per i corrispettivi dovuti per l’attività lavorativa, a contribuzione previdenziale. In sostanza si avalla un’accezione in senso ampio di cosa sia “spettacolo”, riconoscendo mutati i tempi dall’introduzione della legge istitutiva dell’Enpals e delle categorie di spettacolo del 1947 e identificando la attività di spettacolo registrate in studio come dirette alla fruizione di un pubblico che ne può godere singolarmente (ad es. ascoltando un CD nel privato) o collettivamente (ad es. ascoltando i fonogrammi diffusi dalla radio in luogo pubblico).
Le dolenti questioni veramente però sono altre, ovvero il “come” è stata attuata tale interpretazione. Si sono avvicinati campi distinti, ovvero i diritti di autore e connessi da una parte e i corrispettivi per la prestazione lavorativa dall’altra. Due universi molto diversi: i primi sono dovuti per obbligazioni di dare (cioè per il trasferimento della titolarità dei diritti, ad es. dei diritti connessi di artista esecutore delle registrazioni su fonogramma della propria esecuzione musicale), i secondi per obbligazioni di fare (cioè per l’esecuzione di una prestazione lavorativa di spettacolo, ad es. il suonare al meglio opere musicali che verranno registrate su fonogramma). Dal punto di vista previdenziale, solo i secondi sono un possibile imponibile. A che titolo infatti dovrebbero essere conteggiati previdenzialmente compensi dovuti per la cessione di diritti d’autore o connessi? La previdenza ha il fine principale, riconosciuto dagli artt. 3 e 38 della Costituzione, di solidarietà verso i lavoratori che per vari motivi (anzianità, invalidità, ecc.) non possono più lavorare, sulla base appunto delle ritenute contributive versate personalmente e dagli altri lavoratori sui corrispettivi/stipendi ricevuti quando ancora si prestava l’attività lavorativa. Invece la disposizione della finanziaria 2003 applica un principio estraneo: oltre la soglia dettata (il 40%, parametro assolutamente ingiustificato e arbitrario…) anche i compensi di diritto d’autore finiscono comunque nell’imponibile per il calcolo dei contributi previdenziali. Mentre entro la soglia ne rimangono esclusi, a (parziale) conferma della loro estraneità all’ambito pensionistico! Risulta evidente l’erroneità, oltre che la pericolosità, di avallare un simile criterio che introduce una sorta di “esenzione” contributiva di somme che, di fatto, il legislatore considera comunque come una sorta di compenso per il lavoro svolto.
Tanto più che anche il TUIR (cioè il Testo Unico delle Imposte sul Reddito, DPR n. 917 del 1986) identifica come assoggettabili a contribuzione previdenziale solamente i redditi da lavoro dipendente che derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro, riconoscendo l’autonomia dei compensi derivanti dall’utilizzazione economica delle opere. Anche la Direzione Generale della Previdenza e Assistenza del Ministero del Lavoro intervenne con la nota del 7 luglio 1998 affermando che il compenso di un lavoratore dello spettacolo che sia anche autore di un’opera dell’ingegno può essere suddiviso in più voci a seconda della causa giuridica, sottoponendone a contribuzione previdenziale solo una parte.
2 – Se abbiamo parlato di corrispettivi per la cessione di diritti d’autore, connessi e d’immagine dobbiamo anche dire che nella prassi tali voci contrattuali sono di norma articolate in percentuali sullo sfruttamento dei diritti (ad es. viene pattuita la cessione dei diritti dell’artista interprete esecutore al produttore di un album in cambio di una percentuale sui proventi di vendita dell’album). Le percentuali vogliono dire soldi che maturano, che vanno calcolati e che vanno corrisposti periodicamente e nel perdurare del tempo, di solito per tutti gli anni di tutela garantita dalla legge su quei diritti. Come si può sapere qual è l’ammontare che si percepirà nel futuro, al momento della conclusione del contratto? Senza accennare al fatto che viene violato il divieto basilare di creare nuovi periodi contributivi oltre quelli relativi alle giornate di effettiva prestazione lavorativa (come ribadito più volte dalla Cassazione, ad es. con sentenza n. 10774 del 2002). Se l’artista matura royalty sulle vendite dopo 5 anni dall’uscita del disco, dovrà comunicare detti compensi all’Enpals come riferiti ad un nuovo periodo lavorativo (che è in violazione del principio appena detto: in quel periodo non c’è stata attività lavorativa!) oppure dovrà fare riferimento al periodo di registrazione del disco (dunque imputando ad un periodo un compenso maturato successivamente)?
Se poi il pagamento di diritti avvenisse dopo che la pensione fosse già stata liquidata, sarebbe necessario ricalcolare e liquidare nuovamente la pensione? Si consideri poi l’aspetto dei massimali: con un’integrazione di compensi differiti come le royalty, i calcoli per sapere se i contributi hanno superato il massimale possono non terminare mai, di conseguenza sarà impresa molto ardua sapere se e quando si siano superati i massimali previsti dall’Enpals. Come si vede, applicare la previdenza sulle royalty è, ancor prima che errato in principio, irrazionale e ingestibile contabilmente. Il tetto del massimale rende poi limitato il possibile incremento dell’ammontare delle pensioni erogabili in seguito al nuovo principio.
Venendo ai calcoli veri e propri, il DPR n. 1420 del 1971 stabilisce che i contributi base per l’assicurazione sono dovuti per ogni giornata di lavoro, che deve essere effettiva. Solo eccezionalmente sono previsti contribuzioni figurative, cioè in assenza di effettiva prestazione lavorativa in un periodo temporale. Il calcolo sulle royalty invece mina questo principio, dovendo dividersi l’importo annuo per un numero di giorni lavorativi che possono benissimo non essere avvenuti, visto che si prescinde dalle giornate di reale prestazione di lavoro.
Di tutte queste problematiche pare che l’Enpals fosse cosciente, visto che nella circolare applicativa faceva riferimento ai compensi corrisposti in forma periodica in un arco di tempo, tuttavia ne sorvola le difficoltà applicative affermando che “la modalità di erogazione del compenso […] non assume alcun rilievo ai fini dell’assoggettamento a contribuzione sociale”.
3 – Non possiamo mancare di segnalare che si va a colpire il lavoratore debole, visto che chi ha un forte potere contrattuale potrà chiedere un compenso a forfait alla stipula o cedere solo alcuni diritti, pagando contributi solo su quella ristretta cessione. Mentre chi è debole contrattualmente dovrà ricorrere molto spesso alla cessione di tutti i diritti nonché a compensi interamente dilazionati in forma di royalty, assoggettando a ritenuta previdenziale almeno il 60% del compenso complessivo.
4 – Va da sé che l’autoproduzione, ove si percepiscano direttamente i proventi e non sussista un contratto di lavoro con terzi, non comporta la contribuzione Enpals ai sensi della legge finanziaria 2003.
5 – Ancora: si dovranno computare nella base imponibile anche i proventi da diritto d’autore, come quelli percepiti e distribuiti dalla SIAE, e da diritto connesso “a compenso” degli artisti esecutori, come quelli percepiti e distribuiti dall’IMAIE? Questi non sono compensi per la cessione di diritti ad una parte contrattuale bensì proventi derivanti dallo sfruttamento pubblico delle opere, dovuti nel primo caso (SIAE) per contratto e nel secondo (IMAIE) per legge come equo compenso. Ergo: l’Enpals non potrà chiederne l’inclusione nell’imponibile di calcolo complessivo.
6 – Vista la macchinosità e le contraddizioni applicative dell’art. 43 della legge finanziaria 2003 (e relativa circolare Enpals n. 1 del 2004 di recepimento), tutt’ora vigente e richiamata dalla Cassazione a soluzione della controversia, viene da chiedersi anche come coordinarlo con il controverso decreto ministeriale del Ministero del Lavoro del 2003 (e relativa circolare Enpals n. 5 del 2008), decreto che prevede la contribuzione previdenziale a favore dei cantanti in sala di incisione secondo meccanismi differenti, perché convenzionali, ma che condivide molti aspetti critici come la contribuzione previdenziale calcolata sul principio delle vendite, differite nel tempo. Nel silenzio delle norme e delle circolari, sembra che la disposizione della finanziaria 2003 si possa applicare a tutti i lavoratori dello spettacolo qualora ricevano compensi sia per la prestazione lavorativa che per la cessione di diritti d’autore, connessi o d’immagine, secondo i criteri percentuali appena commentati. Invece per i soli cantanti che abbiano prestato attività lavorativa artistica in sala di incisione si potrà applicare il decreto ministeriale del 2003, con le relative tabelle di contributi fissi, divisi per fasce di vendita di supporti.
I due provvedimenti sono mutualmente esclusivi: il calcolo a percentuale contro quello convenzionale. O l’uno o l’altro. Non mancano sospetti di incostituzionalità per ingiustificata disparità di trattamento: perché applicare ai soli cantanti un diverso regime di calcolo?
Dal punto di vista della gerarchia delle fonti nell’ordinamento italiano, ci ritroviamo di fronte a norme di diverso grado: una legge e un decreto ministeriale. Il decreto ministeriale, nel migliore dei casi, è un atto amministrativo – non con forza di legge – che può assumere rango di regolamento, cosa che non avviene nel nostro caso perché mancano i requisiti. Il regolamento sarebbe comunque una fonte secondaria, di grado inferiore alla legge. In sintesi, il decreto ministeriale non potrebbe introdurre una disciplina in deroga a quella fissata dalla legge e non dovrebbe trovare applicazione. Però, nel nostro caso, il potere di stabilire tabelle di retribuzioni è stato attribuito al Ministero proprio da un atto con forza di legge, cioè dal DPR n. 1420 del 1971. L’art. 4 del DPR recita: “Per particolari categorie di lavoratori dello spettacolo il Ministro per il lavoro e la previdenza sociale, sentite le organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro maggiormente rappresentative sul piano nazionale, può stabilire, con proprio decreto, apposite tabelle di retribuzioni medie e convenzionali ai fini del calcolo dei contributi”.
A questo punto si potrebbe obiettare, anche in sede giudiziale, che la distinzione effettuata in seguito nel 2003 con decreto ministeriale per la “particolare categoria” dei cantanti sia insufficientemente ingiustificata (perché i cantanti e non i chitarristi?) e poi che i criteri tabellari riguardanti le vendite dei supporti non riguardano le “retribuzioni” ma corrispettivi percentuali per la cessione di diritti d’autore/connessi. Ammesso questo, si dovrebbe arrivare alla applicazione dei criteri della finanziaria 2003 e non delle contribuzioni convenzionali del Ministero, dunque stabilendo l’obbligo contributivo solo per i cantanti e non per gli altri lavoratori? I dubbi si susseguono uno dopo l’altro.
Di fronte a simili problematiche interpretative e applicative, davvero molto complesse e che qui ci siamo limitati appena ad accennare, urge in primis un intervento chiarificatore adeguato da parte del legislatore o perlomeno del Ministero del Lavoro, in secondo luogo da parte dell’Enpals a supporto applicativo. La storia recente ci insegna che l’Enpals si è ritrovato a dover colmare le lacune del legislatore o del governo, compito che non gli spetta. Speriamo si verifichi un’inversione di tendenza, la situazione attuale lo meriterebbe.